TEATRO DI PROSA IN TV
di Maria Letizia Compatangelo
A proposito del dibattito apertosi ultimamente sul ritorno del teatro di prosa in televisione, la mia posizione è assolutamente favorevole: il teatro è spettacolo dal vivo e nulla potrà mai modificare la sua natura, nulla può sostituire il famoso “hic et nunc” dell’evento teatrale… ma quando è proprio il “qui e ora” a rivelarsi proibitivo in questi tempi di contagio, cosa si fa? Si sciolgono tutte le compagnie, chiudiamo per sempre i teatri, facciamo morire d’inedia gli attori? E soprattutto priviamo gli italiani del teatro per un anno?
Avendo studiato per anni le dinamiche del teatro di prosa nella televisione italiana dalle origini ai tempi nostri, posso affermare che la televisione non ha mai portato via spettatori al teatro, semmai il contrario, ha creato familiarità e consuetudini che il pubblico è andato poi a ricercare nelle sale teatrali.
E così avverrà anche al termine di questa moderna pestilenza.
Ora però dovrebbe essere possibile per il servizio pubblico televisivo cominciare a ripensare la realtà del teatro non più soltanto come un onere o un obbligo, ma come un’opportunità, perché quando il teatro televisivo è ben realizzato, con la fantasia e i mezzi tecnici ed economici adeguati, lo spettacolo teatrale si trasforma inevitabilmente in un’entità diversa rispetto a ciò che era in palcoscenico. Ma mantiene intatta una delle sue prerogative: la capacità di generare e ri-generare i linguaggi.
A questo proposito credo possa essere utile leggere quanto ho scritto nel paragrafo che riporto di seguito, perché il rapporto tra linguaggio e livello culturale ed estetico di una popolazione è direttamente proporzionale, e la televisione pubblica ora potrebbe non solo “aiutare il teatro” ma cogliere quest’occasione per riflettere su se stessa e sulla propria funzione formativa.
LA MASCHERA E IL VIDEO – TUTTO IL TEATRO DI PROSA IN TELEVISIONE DAL 1954 AL 1998, di Maria Letizia Compatangelo (Rai ERI, 1998)*
DAL SAGGIO INTRODUTTIVO
5. RITORNO AL FUTURO
Come già detto inizialmente, negli ultimi anni è tornato con forza alla ribalta il problema del teatro in televisione. Se ne trasmette troppo poco, non si produce più, quale potrebbe essere la forma ottimale per restituire sul piccolo schermo il fascino e l‘emozione dell’evento teatrale?
Studiosi, drammaturghi, manager dei media hanno affrontato la questione analizzandola e sviscerandola con competenza.
Nell’intento di offrire un contributo alla discussione, e dopo aver esaminato attentamente tutto quanto è accaduto in questo campo, credo che un sentiero valido e più “produttivo” per uscire da quello che sembra ormai un labirinto senza sbocchi, potrebbe essere smettere per un momento di interrogarsi sul quanto e sul come e soffermarsi invece seriamente, mettendo al bando nostalgie del passato e generiche invocazioni all’arte, sul perché sia o no necessario tornare a produrre e a dare spazi adeguati al teatro di prosa in televisione.
Perché la Rai, in quanto servizio pubblico, dovrebbe ricominciare a pensare il teatro come genere non soltanto elitario e museale ma produttivo? E possibilmente non solo nel senso delle delicate interazioni tra etica e responsabilità, e dunque di “plus-valore” in credito e prestigio, bensì anche in cifre e numeri?
Il dibattito più recente sulla funzione della Rai nell’odierno panorama dell’emittenza in Italia, ha posto nuovamente l’accento sull’obbligo del servizio pubblico televisivo di dedicare un’elevata percentuale della programmazione ad attività di formazione ed approfondimento, e sulla necessità che essa ritrovi e definisca in maniera nuova il proprio ruolo di strumento di educazione.
La tentazione di tirare già qui la riga dell’addizione divulgazione televisiva + teatro = educazione – e dunque rispetto di un obbligo imposto da esigere a gran voce! – semplificherebbe pericolosamente il discorso.
Ci riporterebbe al passato senza alcuno scatto in avanti, un passato in sé elettrizzante ma non riproponibile nella stessa ottica, un passato senza possibilità di ritorno al futuro.
Occorre analizzare anche altri fattori.
In primo luogo lo scenario profondamente mutato dell’offerta televisiva, che dal monopolio è passata alla concorrenza tra due giganti, quindi all’oligopolio, ed ora si avvia, su strade ancora molto lunghe e tortuose, all’apertura sul mercato internazionale, soprattutto europeo, in cui al fianco delle cosiddette TV generaliste sempre maggiore spazio viene quotidianamente conquistato dai nuovi protagonisti dell’etere: satellite, pay-tv e canali tematici.
Né si può prescindere, nel campo della comunicazione, dalle sfide imposte dalla tecnologia multimediale e dal suo mattatore planetario, Internet, che già da alcuni anni ospita nella rete brani e scene di spettacoli teatrali di varie produzioni, a titolo per lo più informativo e pubblicitario, ma talvolta anche di sperimentazione di forme, linguaggi, scenari possibili.
A parte questi episodi, la Rai resta tuttavia nel nostro Paese l’unica emittente che si sia occupata e si occupi di teatro.
E’ un genere in cui non ha concorrenza, le tv commerciali, a parte alcuni monologhi comici, non lo hanno mai visitato, eppure di questa esclusività la Rai non ha mai approfittato per capitalizzare la ricchezza in suo possesso e costruirsi un mercato di nicchia che nell’ottica dell’oggi le avrebbe fatto ritrovare per le mani una collaudata punta di diamante nella nuova strategia dell’offerta differenziata.
Al contrario, negli anni più roventi di guerra dell’audience, convinzione diffusa e conclamata era che fare teatro equivalesse soltanto a perdere telespettatori.
Una convinzione brutale e certamente superficiale, ma non scevra da qualche ragione: il teatro che all’alba degli anni ’80 la Rai si ritrova per le mani è infatti un genere colto ma terribilmente elitario, programmaticamente elitario, è il caso di sottolineare, viste le scelte ed i costanti dirottamenti mirati in questo senso prima sul Secondo Programma e poi sulla Terza rete.
Un teatro che essa stessa ha ghettizzato a partire da quindici anni prima: non è più intrattenimento, non è più il teatro del grande attore e nemmeno lo si pensa come sporadico “evento” da confezionare riccamente, come pure è stato fatto con successo, oltre che nel citato caso dell’Amleto con Maximilian Schell nel lontano 1965, per le étoiles della lirica e della danza.
Le cause di questo desolante risultato, illustrate già nel paragrafo precedente, si possano ricondurre essenzialmente a tre fattori: il taglio del rapporto con il palcoscenico reale e soprattutto con la vita delle compagnie – prova ne sia la scomparsa dai teleschermi per più di dieci anni, dal ’64 al ’75, di uno dei caposaldi di maggior successo della prosa televisiva, il “Teatro di Eduardo” – le quali, ben più che i teatri pubblici, hanno sempre costituito il vero tessuto connettivo e la linfa del nostro teatro; l’inaridimento del linguaggio espressivo, privato di quella osmosi ed affidato unicamente al maggiore o minore estro creativo di un regista chiuso in uno studio con i suoi attori ed i tecnici, senza il tempo necessario per conoscersi e sperimentare insieme; la progressiva marginalizzazione del teatro di prosa nei palinsesti tv, sempre più confinato nel ghetto degli spettacoli “culturali” e sempre meno visto come genere capace anche di emozione e divertimento.
Riscoprire oggi le potenzialità del teatro anche come genere di intrattenimento potrebbe rivelarsi una strada importante per la Rai – ricca di conoscenze e di un repertorio che nessuna altra emittente italiana possiede – per coniugare le proprie esigenze con i propri obblighi, compresa la coesistenza del canone e della pubblicità, abbattendo il pregiudizio che nega alla cultura in genere la qualità del fascino e la capacità di fare presa sul pubblico, allineandosi alla migliore tradizione di altre prestigiose emittenti europee, armandosi per le nuove sfide che la attendono e magari, come ha scritto Gassman, “con i grandi mezzi e i poteri della televisione, concorrere a creare quella scuola dei mestieri e delle arti che tanto si attaglierebbe al nostro Paese”.
Tutte queste motivazioni, importanti ed anche nobili, si fermano tuttavia ad un livello di strategia aziendale e di intelligente politica culturale, che ancora non ci mostra il perché più profondo, quello più convincente, e forse più vero.
Perché la Rai di oggi, che, oltre ai validi programmi della Direzione Educational, può ad onor del vero vantare ottime trasmissioni di divulgazione scientifica, affascinanti programmi sulla storia, un interesse consolidato nei riguardi dei problemi dell’ambiente e del mondo degli animali, una Rai che ha riscoperto tradizioni e colori locali a fianco di originali diari di viaggi nel mondo e che sta finalmente ricominciando a produrre fiction in proporzioni ed a livelli europei, così che non saremo più conosciuti all’estero soltanto come i produttori della Piovra… perché una Rai così equipaggiata sul fronte culturale dovrebbe dedicare risorse al teatro?
Io credo che questo perché esista, il più nascosto eppure il più evidente, quello per cui – a prescindere dalla questione televisiva – il teatro vive : la sua capacità di creare il linguaggio.
Una capacità dalla quale non può prescindere alcuna nazione che intenda confrontarsi a parità di dignità sulla scena internazionale.
Una capacità di cui anche la televisione ha bisogno.
Che in questi ultimi anni si stia invece assistendo in Italia ad un progressivo impoverimento ed appiattimento della nostra lingua è un fatto innegabile, un fenomeno sotto gli occhi di tutti, tanto più degno di attenzione quanto più si pensi al momento storico in cui esso si produce: un periodo di alfabetizzazione e scolarizzazione diffusa, di relativo benessere e di disponibilità allargata di strumenti ed offerta culturali, cui corrisponde un allarmante ritorno di abbandoni scolastici.
Una fase storica in cui l’Italia si sta misurando con i gravi problemi dell’essersi trasformata in ambita terra di immigrazione, ma non con la ricchezza e la linfa vitale che il confronto tra diverse culture potrebbe generare: rispetto a questo confronto gli italiani sembrano tuttora impreparati ed oscillano pericolosamente tra buona volontà e terrore inespresso di perdere la propria identità.
Quest’ultimo è un pericolo abbastanza remoto, ma certo in un popolo coltivare la vitalità del proprio linguaggio significa conservare la capacità di “raccontarsi una storia”, o meglio le proprie storie… il che aiuta a mantenere saldo il timone della cognizione di sé.
Raccontarsi una storia significa rassicurarsi di esistere.
Per farlo c’è bisogno di un linguaggio.
In questo senso anche la finzione artistica è fondamentale nella sua determinatezza: la fruizione estetica – ovvero con la coscienza di un filtro – è data dalla riconoscibilità del linguaggio di quella determinata forma d’arte.
Così la fruizione estetica di una vicenda o di un’immagine ci può emozionare, anche fortemente, ci può divertire, commuovere, elettrizzare, rasserenare, far riflettere, e tuttavia la consapevolezza di fondo che ciò che accade non è reale ce ne fa uscire illesi, forse catarticamente rigenerati, forse no, ma almeno per quel dato lasso di tempo non avremo immagazzinato l’angoscia e le ansie generate dal quotidiano incontro/scontro con la realtà.
Incontro/scontro che per la quasi totalità degli italiani si attua anche, e per un considerevole numero di ore al giorno, attraverso lo schermo della televisione.
E qui invece regna una confusione sempre più marcata di segni e di linguaggi, con tutti i pericoli di mistificazione, costruzione di false mitologie e travisamenti di valori reali che ciò può comportare.
Anche la televisione ha bisogno di ritrovare il linguaggio.
Andando a rivisitare il tanto vituperato “teatrino” degli anni ’50 e primi ’60, non si può negare la poco emozionante qualità dell’immagine, schiacciata da luci fisse e dall’alto, la scarsa mobilità della ripresa, il sonoro a dir poco manchevole. Molte di quelle rappresentazioni sono persino brutte, eppure, ci diciamo, restano affascinanti per il loro valore di documento.
In realtà c’è anche qualcos’altro, che si percepisce a tratti, oltre la rozzezza delle prime, pionieristiche riprese: è una qualità di energia, di vitalità pura, una trasfusione di emozione direttamente dalla ribalta al piccolo schermo, probabilmente causata dal contesto, con l’entusiasmo che sempre accompagna gli esordi, ma più verosimilmente espressa dagli attori, consci di andare, insieme ai propri compagni, in prima linea e senza rete, senza l’appello del montaggio e della post-produzione, con la sola forza del proprio essere e della propria parola.
In un certo senso la scarsezza dei mezzi tecnici provocava un ostacolo che a sua volta causava un’intensificazione dell’emozione.
Essere una troupe collaudata, una compagnia che già recitava quella tale commedia da tempo era una delle poche ma migliori garanzie sia per gli artisti che per la Rai. Di qui lo stringersi del legame tra le compagnie e la Rai, il moltiplicarsi delle proposte, la ricchezza dell’offerta, l’osmosi tra palcoscenico reale e ribalta televisiva… e la girandola dei linguaggi, intesi come modello espressivo e persuasivo di un determinato artista ma anche come risultante delle dinamiche espressive interne ad un intero gruppo, come lingua dell’autore ma anche, con l’esplosione dei dialetti, come campionario delle lingue teatrali d’Italia.
Forse perché in quegli anni di boom economico e di ricostruzione l’interesse della politica per la televisione si fermava eminentemente all’informazione, forse perché l’organico era ancora esiguo, forse perché non era ancora invalso l’uso delle registrazioni RVM in studio, lo spettacolo televisivo ha avuto per lungo tempo bisogno dell’apporto del palcoscenico e delle compagnie teatrali.
In questo scambio vorticoso entrambi i protagonisti, il teatro e la Rai, hanno preso molto l’uno dall’altra.
Il teatro ne ha ricavato una diffusione capillare che ha preceduto e favorito l’apertura di nuovi circuiti su tutto il territorio nazionale, il sostegno e la promozione per molte importanti compagnie, la nascita di un vivaio di nuove formazioni all’interno delle quali sono germogliati grandi talenti, sia di attori che di registi, la possibilità di sperimentare nuovi testi italiani e stranieri che poi hanno avuto il proprio corso anche in palcoscenico… e per quelli che sono venuti dopo, il documento prezioso del lavoro e dell’arte di coloro che li hanno preceduti.
La Rai, da parte sua, grazie al teatro ha costruito i suoi primi palinsesti, ha tenuto a battesimo le nuove reti, ha sperimentato strategie ed innovazioni tecniche, ha garantito la qualità della propria offerta ma soprattutto ha assunto una tradizione facendola propria, trasformandola e travasandone modi e tecniche in altri generi, dal teledramma, poi originale televisivo, alle prime pubblicità di Carosello, sino all’invenzione dello sceneggiato.
La teatralizzazione della comunicazione televisiva – assunta in seguito anche dalle altre emittenti – è proseguita costante negli anni, assumendo via via non solo la sperimentata forma realistico-naturalistica o quella della “scena processuale”, ma attingendo anche allo straniamento, al coinvolgimento del pubblico in studio, alla commistione dei generi, sino praticamente all’happening, con una capacità di assimilare ciò che si andava sperimentando in teatro addirittura più marcata che negli spettacoli veri e propri di prosa televisiva.
Questa acquisizione di modelli teatrali ha provocato la progressiva spettacolarizzazione di tutta la comunicazione televisiva, comprese le inchieste, gli speciali, i talk-show, le trasmissioni di attualità e di varietà – basti pensare al meccanismo del colpo di scena in “Chi l’ha visto?” o a quello dell’agnizione in “Carramba…” – , gli spazi di approfondimento giornalistico, per non parlare dello sport… sino al modo stesso di costruire i telegiornali.
Ora però che tutto è teatralizzato, niente più è teatro.
Tutto è spettacolo, lo spettacolo deve proseguire… e tutto ci lascia indifferenti o sospettosi, o angosciati.
Non è più chiaro quale sia il confine tra messinscena e realtà.
La parola sta andando verso il grado zero della comunicazione, ed è una rincorsa all’ingiù. In niente più risuona una lingua originale.
Possiamo tenere acceso il televisore ore e sbrigare mille faccende mentre dal teleschermo escono voci, urla, invocazioni, freddi resoconti e quant’altro, senza sentire il bisogno di correre a guardare le immagini corrispondenti, come invece accade per il cinema.
Perché il cinema è diverso, parla per immagini.
Il suo linguaggio specifico è dato dalla concatenazione di immagini in un determinato rapporto spazio-temporale. Un linguaggio che, almeno per il grande cinema, riconosciamo immediatamente, bastano pochi fotogrammi e anche nel mezzo di uno zapping furioso indoviniamo di trovarci di fronte ad un’opera cinematografica.
Anche il teatro si serve di immagini, ci sono stati secoli in cui grandi artisti e scienziati – basti pensare a Leonardo – si sono adoperati affinché il senso del meraviglioso e lo stupore, attraverso le macchine e la magnificenza delle scene, attanagliassero gli spettatori, ma di certo la sua specificità non è lì, bensì nell’essere presenza, “hic et nunc”, corpo, gesto e parola dell’attore davanti ad uno spettatore.
Il teatro ha dunque il gesto ma soprattutto ha la parola – l’eredità più diretta del suo essere presenza – che con forza ed enormi vantaggi possono essere tradotti in Tv.
Più che l’immagine, nella fusione di questi due specifici, è senz’altro la parola il vettore trainante, quella che, legata al corpo dell’attore che non c’è, attraverso ed oltre i suoi gesti e la sua mimica facciale, può a tratti restituirci atmosfere e magia del palcoscenico.
Ritornando sull’episodio di Chiave di lettura, del 1981, quando alcuni giovani registi dell’avanguardia romana vennero invitati a misurarsi con dei classici della letteratura teatrale, credo che se non fosse rimasta senza seguito, data l’attenzione sempre più scarsa per il teatro nel contesto degli orientamenti Rai negli anni ’80, quell’idea avrebbe potuto forse innescare un dibattito molto vivo, anzi per molti versi il dibattito sul confronto tra due specifici espressivi distinti e su quale fosse la via più efficace per compenetrarli.
Già, c’è da domandarsi, perché, come mai, è stata solo una bizzarria chiedere ad affermati esponenti del teatro immagine di realizzare per la televisione opere del teatro di parola, confrontando la propria con una messinscena tradizionale dello stesso testo?
O forse la televisione, pur proponendosi come una serie di righe che compongono immagini sul teleschermo, non può fare a meno della parola per esistere?
E soprattutto non può esimersene il teatro in televisione?
Se sì, e se ciò costituisse un presupposto accettabile, si spiegherebbe anche perché è il dramma borghese quello che ha eminentemente trionfato sui teleschermi, un teatro in cui comunque, aldilà della qualità delle riprese, dell’impianto scenico e delle invenzioni, anche senza l’ausilio dell’estro e della sensibilità di determinati registi – pensiamo a Ronconi, a Strehler ripreso da Battistoni, ai bianco e nero di Claudio Fino, ad Enriquez, a Morandi e a Squarzina, solo per fare alcuni nomi – era la parola detta dall’attore a dominare la scena e a ricreare le atmosfere.
Naturalmente c’erano gli adattamenti, peraltro sempre eseguiti da scrittori, c’erano le traduzioni e c’era l’interesse per la vicenda e per l’intreccio, ma la necessità del linguaggio drammatico restava sempre insita e percettibile, come una guida da seguire sia per il godimento della trasmissione, sia, ad un livello più profondo, per la comprensione e lo svelamento del senso.
E che dire del fatto che proprio negli anni in cui dagli schermi televisivi traboccava una incredibile quantità di teatro nei dialetti di tutte le regioni, in Italia si venisse per la prima volta a determinare una effettiva, e non più soltanto letteraria, unità linguistica?
Attraverso il ritmo e la capacità del dialetto di rendere le emozioni, i telespettatori si affascinavano alle storie ed ai personaggi, entravano nelle loro vicende partecipando di una diversa realtà linguistica che poi andava ad arricchire e a nutrire la propria.
La parola nel vero teatro non è mai abborracciata o omologata.
Può essere grandiosa, come quella di Shakespeare, che in modo impareggiabile è riuscito non solo a costruire immagini di poesia, ma anche a dare un destino ai propri personaggi attraverso di essa.
Può assumere il modo della lingua parlata e ricostruirne la naturalezza ma non è mai casuale, anche quando propone la povertà di linguaggio di un determinato personaggio. Perché quella è la lingua che quel personaggio deve avere, e non potrebbe essere un’altra. Non è la fotocopia di qualcosa, ma la ri-creazione di un universo.
Come la qualità delle immagini per il cinema, la qualità del linguaggio – il suo spessore, il colore, il ritmo, l’alternarsi delle battute e le pause – è il tratto distintivo del teatro, e nel teatro televisivo è ciò che maggiormente ci può attrarre, condurre per mano e sedurre, oltre l’immagine, oltre l’allestimento, pur importantissimi.
Attraverso la parola dell’attore passa la lingua poetica dello scrittore di teatro – là dove riesce a restituire il senso nascosto delle cose e parla all’io più profondo di ciascuno di noi – e attraverso questa lingua programmata, inventata ma necessaria, si arricchisce spontaneamente il linguaggio reale e la capacità di comprendere e di comunicare dello spettatore, del pubblico, della gente.
Certo il teatro è anche rito, è la magia di immettere l’universale in una piccola esistenza inventata, come nella scatolina dell’Otto Marvuglia di Eduardo… è riflessione sulla realtà e incanto del più semplice gesto dell’attore, ma soprattutto è questa sua lingua artificiale eppure naturale e necessaria che il teatro può offrire come carta di credito perché ci si convinca a tornare a produrlo seriamente per la televisione.
Per tornare a produrre seriamente si intende in modo ricco e differenziato, non discontinuo ma costante e frequente, ricostituendo il legame con il palcoscenico reale, ricorrendo alla costruzione di cornici-evento ed al magnetismo dei grandi interpreti, e – perché no? – magari co-producendo gli spettacoli insieme agli impresari o ai grandi Festival, così come si fece agli inizi e come si fa tuttora per il cinema.
Ma qui il discorso già verte una volta di più sul come e sul quanto produrre prosa per la televisione, domande per rispondere alle quali non c’è una ricetta univoca, salvo la già auspicata demolizione del pregiudizio che confina il teatro e la cultura in genere nel ghetto dei programmi a basso costo perché incapaci di intrattenimento e di audience.
Ciò che a noi interessava invece, nel quadro dei nuovi scenari televisivi in Italia, era individuare perché fosse necessario.
Per dare una iniezione di vitalità alle nostre parole, perché solo il teatro, facendo risuonare dal piccolo schermo l’originalità delle sue lingue può contribuire, attraverso l’emozione o il divertimento, a risollevare, rimpinguare e rigenerare il linguaggio di noi tutti, restituendoci il gusto di giocare con le parole e di sceglierle, e l’elasticità necessaria per accogliere il nuovo e rigettare ciò che è arrabattato, logoro, e suona come moneta falsa. Magari non solo nello spettacolo televisivo.
* LA MASCHERA E IL VIDEO TUTTO IL TEATRO DI PROSA IN TELEVISIONE DAL 1954 AL 1998, documenta tutto il repertorio del teatro di prosa prodotto e/o trasmesso dalla televisione Rai dal 3 gennaio 1954 al 31 dicembre 1998. Un ampio saggio introduttivo illustra gli splendori e le vicende della storia del teatro in televisione, specchio e testimonianza della vita teatrale e della cultura televisiva che hanno caratterizzato la società italiana nel corso di quarantacinque anni. Il repertorio esaustivo degli spettacoli di prosa in TV è riportato secondo un criterio cronologico che ne facilita la consultazione, offrendo per ogni singola pièce una scheda particolareggiata, che oltre alla locandina completa (titolo, autore, regia, attori, eventuali riprese da teatro, l’inserimento in cicli e rassegne, le “ditte” di produzione e tutta la parte artistica) contempla, cosa fondamentale per gli addetti ai lavori, utili indicazioni su dove e come siano reperibili gli spettacoli in esame, se siano ancora trasmissibili, secondo la tecnica impiegata per la registrazione, e se infine siano stati o no cancellati. “LA MASCHERA E IL VIDEO” è inoltre corredata da cinque Indici Analitici (Titoli; Autori; Registi; Traduttori; Adattatori Televisivi) che permettono di risalire rapidamente da “valle” alla trasmissione particolare che si intende rintracciare, da un Quadro Sinottico Generale che sintetizza la realtà di tutti gli spettacoli trasmessi – suddivisi tra le tre reti Rai e distinti tra nuove produzioni, repliche, acquisti esteri, co-produzioni etc. – e da 12 Grafici che offrono a colpo d’occhio la sintesi del panorama della vita del teatro di prosa in televisione nelle sue evoluzioni e modifiche durante i quarantacinque anni esaminati. Nel secondo volume (1999-2004) gli aggiornamenti, con l’apertura dei canali satellitari e tematici.